lunedì 27 maggio 2013

Che idea avete dello sport? Ecco la mia

“Si ciao sono Michele, c’è Andrea?”. All’altro capo del telefono papà Angelo che rispondeva: “Si, peta natimo che teo ciamo….ANDREEEAAAAAAA, ghè zè el to amico qua che te serca”. Ogni giorno così, ogni giorno la stessa telefonata alla stessa ora con le stesse parole, per tutta l’estate. Per dirsi tre parole in croce, orario di ritrovo, chi portava la palla e chi veniva a giocare. “Ok G, passo per le 3 allora”. Si ciao, alle due meno un quarto ero già sotto casa sua col pallone in mezzo al palo della bici. Sua mamma che aveva un po’ più di coscienza, ci obbligava a stare dentro in casa almeno fino alle 3. Si “smanettava” (Worms era il gioco che andava via per la maggiore) sul pc per far passare il tempo, poi via tutti al campetto. 3 mesi così, giugno, luglio e agosto, sole, pioggia vento, ferragosto, non ci fermava nulla, era quasi fastidioso andare al mare quei 15 giorni all’anno. Era quasi tempo perso. E se alle 2 non potevo andare a casa di Andrea, passavo un’ora in camera mia a tirare al canestrino appeso all’armadio, sognando di mettere il tiro per la vittoria in gara 7 delle finali NBA. Ogni benedetto giorno, pallone, scarpe, pantaloncini e canotta. Sapevi che alle 4 arrivavano tutti ed erano partite di una intensità fenomenale. Ah si scusate, siamo cresciuti a pane e basket, la palla era a spicchi e le scarpe alte. Il campo era la piattaforma delle scuole medie di Camisano. Mi ricordo di aver scoperto il basket in seconda media, appena finita la scuola, un giorno Loris mi chiese di andare a giocare alla scuole medie. Io manco sapevo palleggiare, non conoscevo le regole e tiravo a canestro con due mani. Dopo quella prima partita, sta cosa della palla al cesto mi incuriosì e per tutta quell’estate mi incollai al cemento del campetto a giocare, a capire come ci si doveva muovere, tirare, come andare a rimbalzo. Mi veniva facile giocare, mi fluiva dal corpo e per la prima volta avevo trovato qualcosa che mi appassionava veramente, che mi dava gioia, che mi permetteva di essere me stesso, nonostante le spalle larghe, le gambe troppo lunghe e troppo magre, nonostante le braccia fine e le mani grandi. Anzi queste caratteristiche erano proprio adatte a sto giochino. A differenza di quando giocavo a calcio come portiere, dove alcune cose mi mettevano paura, qui davanti al canestro era tutto facile, non sentivo la fatica, non c’era cosa che non volessi imparare. La cosa curiosa è che in quella scuola media ho da una parte scoperto un talento, e dall’altra parte alcuni professori non capivano questo mio fanatismo e più di qualche volta mi hanno fatto star male. Ricordo di aver fatto la tesina sul basket agli esami di terza media e di aver pensato: “Si ,ma voi non ci capite nulla, non vi posso spiegare una roba che manco vi interessa”. Ma questa “sofferenza” ha contribuito a darmi una marcia in più in campo, dove volevo essere il migliore. Tornando a quelle estati, sono stati anni cult per me e Andrea (da ora in poi solo “G”), lui con l’immancabile bici di sua sorella, canotta di Rodman e cappellino bianco della Nike ovviamente al rovescio, io maglietta delle prugne Sunsweet e braghetta multicolor a scacchi (onestamente inguardabili tutti e due, ma erano altri tempi). Le nostre estati per anni sono state sempre e solo questo: sveglia a tarda mattinata, difficilmente prima delle 11, pranzo verso le 12.30, impaziente attesa fino alle 14.00, arrivo a casa del G, partitella al pc, ore 15.00 partenza per il campo con sua mamma che ci guardava uscire secondo me pensando: “Prima o dopo mi chiama l’ospedale che li han ricoverati”, poi basket, botte, canestri, rimbalzi, vittorie, sconfitte, chiacchiere, risate, ore 20.00 (e a volte anche oltre) rientro a casa per la cena e se era ancora abbastanza chiaro si tornava al campo fino alle 21.30. Si tornava a casa sfatti, completamente annientati dal sole, dalla fatica, dalla sete, soddisfatti di aver fatto esattamente tutto ciò che si voleva. Durò parecchio questo periodo, diciamo dalla seconda media alla quinta superiore, dagli 11 ai 18 anni. Ricordi? A palate. Le partite 2vs2 con me e il G contro Paolo e mio fratello più vecchi di 5 anni, partite a 101 punti molte volte col pallone da calcio perché avere quello vero da basket era un po’ un lusso. E la ragazza americana? Onestamente una della nostre peggiori performance. Giorno come tanti altri al campetto, io, il G e Ale Sandini (altro soggetto ai confini con la realtà). Manca il quarto, in tre non si fa nulla, qualche partitella a 21, a slam (quanti palloni bucati sugli spigoli del tabellone). Oh raga, qui se non arriva il quarto è meglio andare a casa. Manco il tempo di dirlo, all’orizzonte una ragazza americana, canotta da basket, braghe e scarpe ultimo modello, zainetto sulle spalle e asciugamano bianco in mano. Dai dai, che se ci chiede di giocare siamo in 4. Infatti si ferma, ci presentiamo, lei ci dice il nome ma nessuno dei tre ci capisce nulla. Ragazza bellissima, pelle color oliva, espressione timida e un po’ spaesata, età non definibile, forse 17-18 anni. Cominciamo a giocare, noi rilassati, lei con una aggressività vista poche altre volte. Fa capire che non ha paura dei contatti, botte, blocchi. Caldo di quello insopportabile, umidità al 90%. Finisce la prima partita, le facciamo capire che abbiamo bisogno di acqua. Ok ok, le si avvicina al suo zaino, lo apre, prende la bottiglia di acqua e beve. Nello stesso momento, noi come tre maiali dentro al recinto ci gettiamo sotto l’idrante e “sguazziamo” per un buon 5 minuti per bere, lavarsi sotto le ascelle, bagnarsi il collo. La tipa scioccata, fa un’alta partita e poi se ne va. Mai più rivista al campetto. Sparita nel nulla, non credo le abbiamo lasciato una bella idea del basket italiano. G, e Ale (alias Il Centro) che scivola per scavalcare la ringhiera della scuola e si dilania il petto, che sembrava Gesù Cristo sulla croce? “Ale, tutto bene?”, lui con le lacrime agli occhi dal dolore: “Si si, tranquilli, fatto niente”, col sangue che sgocciolava sul marciapiede. Episodio a parte, probabilmente il più forte giocatore ad aver mai giocato li dentro. 2 metri di talento cestistico cristallino, con il quale mi sarei poi ritrovato a giocare anni dopo in partite decisamente più importanti, ma questo è un discorso a parte. Al campetto lo “odiavamo” tutti, troppo forte per noi, l’unico che schiacciava facile (e qui l’odio aumentava), era quello che sceglievi sempre per primo se ne avevi la possibilità. C’erano chiaramente le ragazze, che magari passavano davanti al campetto e noi facevamo i duri, ma con la coda dell’occhio volevi vedere se ti stavano guardando o se dicevano qualcosa. Ci sono stati ovviamente i tornei di Streetball organizzati da Michele Fabris (alias Cyborg), l’unico che veniva al campetto col paradenti viola e fucsia. Era un torneo di paese, ci conoscevamo tutti, ma nessuno ovviamente ci stava a perdere. Mi ricordo che un anno partecipai nonostante stessi facendo una cura di penicillina per curare una tonsillite con mia mamma e mio papà che mi facevano le punture poco prima di andare a giocare alla sera. Che poi, mamma e papà, come facevate a lasciarmi andare a giocare in quelle condizioni? Ecco cosa significa “erano altri tempi” Ricordi che richiederebbero un libro (ci sto lavorando eh). Ho voluto scrivere questo breve post perché guardando il video che trovate sotto il titolo, mi sono venuti in mente quei momenti. Ha ragione Buffa, noi studiavamo (si va bè, ogni tanto) e poi via a giocare. Ore ed ore a giocare. Alle 8 era tassativo arrivare a casa se non volevi mangiare freddo, e più di qualche volta è capitato. Si mangiava tutti assieme, con mamma e papà che parlavano, e io e mio fratello zitti perché eravamo consumati dalla giornata al campetto. Erano altri tempi, era permesso “cazzeggiare” per 3 mesi, facendo esclusivamente quello che ci appassionava e che ci faceva stare bene. Ho amato e amo tutt’ora quel posto perché mi ha dato la possibilità di coltivare un talento, piccolo o grande che fosse non importa, mi ha messo in contatto con me stesso. Se riguardo quegli anni con occhi più maturi, mi accorgo che quella nostra passione era in realtà utile alla “comunità” perché quel campo lo tenevano pulito, portavamo le scope per spazzare via gli aghi dei pini e i sassi, cambiavamo le retine, buttavamo via gli alveari di api dietro al tabellone ed era un punto di ritrovo per tanti ragazzi che magari non sapevano cosa fare. Siamo cresciuti liberi di fare, di non fare, abbiamo espresso il nostro talento senza troppe limitazioni. Era semplice, bastava un pallone, un paio di scarpe, due canestri, era un sistema economico e sostenibile di vivere la vita. Eravamo liberi come l’aria, alla ricerca delle felicità, del piacere dell’amicizia, della condivisione. 15 anni fa, ma sembra un secolo, il mondo è cambiato, le nostre vite sono cambiate ma i ricordi vanno tenuti vivi perché prima o poi andranno tramandati.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

c'ero anche io studente universitario, pallavolista ma che sognava il tiro da 3 alle finali come quello di Derek Fisher ... che entra sempre al momento giusto ... un solo rimpianto ... non aver fatto mai parte di una squadra di basket ... andavo ad allenarmi con il gruppo di riccardo sinico ... ma partite solo al liceo ai tempi di Magic e James Worthy ... e al campetto con voi giovanotti a divertirsi

Anonimo ha detto...

firmato KOBE24