giovedì 14 febbraio 2013

Cosa vi rende felici? Vi racconto la mia storia...

“Micheleeee, vien su che zè tardi e te ghè da fare i compiti”. Questo è l’unico ricordo del mio primo giorno di scuola. I compagni, la maestra? Si ciao, l’unico ricordo è mia mamma che grida dalla terrazza ordinandomi di salire perché bisognava fare i compiti! Su per le scale mi ricordo di aver pensato perché mai dovevo fare i compiti se ero già stato a scuola 4 ore alla mattina. Settembre 1989, all’epoca di Michele Cogno. Quell’anno vide eventi storici decisamente più importanti, ma per me quelle urla che arrivavano dalla terrazza erano le uniche cose che avevano senso. Avevano senso perché era pronto da mangiare, perché c’erano quei dannati compiti da fare. La storia scritta ci racconta che quell’anno cadeva il muro di Berlino, che qualche anno dopo sarebbe arrivata Tangentopoli e Mani Pulite, che sarebbe nato un partito quale Forza Italia, che nel 1994 perdemmo la finale dei mondiali contro il Brasile, che nel 1996 morì 2pac (gran tragedia), che qualche anno dopo entrammo in Europa ecc ecc. E poi le guerre, l’Iraq, la Bosnia, il Kosovo, questo ci raccontano i libri di storia. All’epoca quei fatti avevano Senso per me? No, o almeno era marginale, poco tangibile. E allora cosa aveva senso, e cosa ha senso nella mia vita? Nella mia infanzia avevano senso altre cose, aveva senso andare a scuola con la camicia nuova e sentirsi talmente figo da camminare un metro sopra a tutti. Aveva senso in aprile, al sabato mattina scendere con mio papà in orto a vangare e il 25 aprile fare la prima semina (tradizione mantenuta per anni). Aveva senso chiamare Matteo, Loris, Alberto e andare a casa loro a giocare sapendo già che alla sera avremmo mangiato assieme. A casa di Loris la mamma faceva un hamburger con patate fritte impareggiabile, a casa di Matteo la Marina ci dava sempre il thè coi pan di stelle e a casa di Alberto sua mamma faceva dei biscotti con le noci che appena usciti dal forno si sentiva il profumo fin giù in garage. Aveva senso in estate uscire giù in strada e giocare per ore sull’asfalto a calcio, con il pallone che finiva ovunque, una volta sul giardino degli americani, un’altra volta dietro il cassonetto, un ‘altra volta finiva in fondo alla strada. Aveva un senso sentire il papà della famiglia americana che ci abitava di fronte suona il pianoforte alle 3 di mattina, o vederli picchiarsi in strada per risolvere qualche bega familiare. Erano pazzi furiosi, ma erano persone squisite, sempre disponibili, aperte. Erano persone che portavano un’altra cultura e all’epoca imparavo tanto da loro come loro da me. Aveva senso quello e niente altro, non mi chiedevo perché erano li, a fare cosa, per conto di chi. Erano persone, erano amici e per me era bellissimo. All’epoca avevano un senso tutti i ragazzi del quartiere. Mio fratello in primis, Diego e Manuel, Devis, Giancarlo, Simone e Edo. Aveva senso trovarci a casa di Giancarlo col Monopoli che diventava un campo di battaglia, o andare in garage dal papà di Diego e Manuel quando ammazzava il maiale. Aveva senso andare ad aprire i cassonetti e portare a casa i giocattoli che gli americani buttavano via (e ne buttavano via a camionate) per esibirli come trofei. Aveva senso andare dal barbiere assieme a mio fratello, con lui che pedalava e io dietro sul portapacchi della Graziella. Aveva senso dirlo a nostra mamma e sentirci riempire di parole. Ma vi immaginate la scena, in giro per Camisano sopra al portapacchi della bici? Era come essere Cesare che entrava a Roma da vincitore. Aveva senso giocare a calcio in giardino, sfracellarsi un dito del piede calciando la muretta e vedere mio fratello piegato in due dal ridere. Aveva senso andare dal nonno di Matteo e buttarci giù dalle balle di fieno e sentire la pelle che grattava. Aveva senso giocare a nascondino in mezzo ai campi di sorgo o scappare dai cani che ci correvano dietro. Aveva senso cadere nel fosso, arrivare dentro casa e sentire la Marina: “Ben Michele, sito cascà dentro al luamaro?”. Poi tutti giù a ridere. Aveva senso andare dalla nonna Dorina armati di canna da pesca alle 6 di mattina e passare ore a pescare, arrivare a casa della nonna, pulire il pesce e mangiarlo. Non mi ricordo più quante volte mio papà ha dovuto togliere il filo incastrato ai rami perché io dovevo imitare Sanpei. Mi ricordo il granaio dove c’erano i “Topolino” da leggere e mia nonna che diceva sempre: “Vegner zò suito che zè pericoloso”. E io che facevo le scale a 4 a 4, correvo in granaio, prendevo a caso 4-5 “Topolino” e scappavo giù senza nemmeno il coraggio di guardare cosa ci fosse di preciso in quella stanza, anche se ovviamente c’erano la stega, l’umo nero, il lupo mannaro e ovviamente il più cattivo di tutti, il “Salbaneo”. Aveva un senso il letto dove mi nonna mi faceva dormire, fatto di piume che alla mattina eri praticamente risucchiato dal materasso e ti serviva il gancio traino per uscirne. Aveva senso giocare per ore in garage a ping-pong con tavolo fai da te costruito da papà Romeo (le dimensioni deve averle prese l’unica volta che si è ubriacato perché erano un tavolo più largo che lungo, ma son dettagli), oppure sfidare mio fratello a calcio. Oddio calcio, una specie di lotta maori fatta con un pallone. Erano botte, botte vere che prendere gol era decisamente più grave che prendere un brutto voto a scuola. Aveva un senso saltare la rete dietro casa e fare le gare saltando le maree di fieno fino a perdere il fiato, o guardare per ore il trattore di Ambrosini che tagliava l’erba. Aveva senso appena finito di piovere scendere in orto e spalmarsi di fango per fare finta di essere un super eroe. Avevano un senso i compleanni, dove era lecito tutto, si faceva di tutto, ci si faceva un male cane, si andava a casa distrutti, ma poi si parlava per una settimana di quell’evento. I regali contavano poco, l’importante era giocare, sfidarci a calcio, a nascondino, a fare la guerra, mangiare il dolce e ingozzarci di patatine e pop corn e fare i rutti con la Coca Cola. Aveva senso dare una mano alla mamma a fare la pasta per la pizza, o gli gnocchi o le tagliatelle e poi rubarle pezzi di pasta grossi come palloni da calcio e mangiarli crudi e sentire lo stomaco che si attorcigliava. Ma quanto buona era quella pasta. Aveva senso avere due genitori “contro corrente”, che portavano mio fratello a fare il buco all’orecchio e chiedevano a me: “Vuto farteo anca ti?” o che mi chiedevano ogni volta che andavo a tagliare i capelli che disegni mi sarei fatto in testa. Avete presente quella sensazione di poter osare, provare, sperimentare sapendo che non sarei stato giudicato? Questo aveva un senso anche se l’ho capito solo dopo diversi anni Poi crescendo il senso era andare al campetto ogni santo giorno a giocare a basket, telefonando al mio amico G (Andrea): “Ciao G, scolta…rivo casa tua alle tre e mezza” e alle due meno un quarto ero già sotto casa sua. Non tornare prima delle 8 di sera con mia mamma preoccupata e mio papà che diceva: “Vara che qua ghemo zà magnà, se te voi te magni e senò te salti” ma non in tono minaccioso, semplicemente facendomi capire che c’erano delle regole e che se volevo le rispettavo, altrimenti ne pagavo le conseguenze. Avevano un senso i primi amori alla medie che ti facevano sognare per ore e poi d’incanto sparivano. Aveva un senso non dormire mai il sabato notte perché alla domenica mattina c’era la partita e l’agitazione non ti faceva chiudere occhio (oggi come allora). Aveva un senso alle scuole medie intuire che la scuola e chi comandava difficilmente accettava la diversità, la novità, ma preferiva l’uguaglianza e il conformismo. Aveva un senso soffrire per quelle diversità, aveva un senso proteggerle e continuare per la propria strada anche se tutto ciò ha comportato difficoltà, brutti periodi e incomprensioni. Aveva un senso ritirare l’attestato di terza media guardando quei dirigenti come alieni che non conoscevano nulla di tutti noi e pretendevano di essere importanti ai nostri occhi. Aveva un senso sentirsi scorrere dentro una forza come se potessi spaccare il mondo, sentirsi attraversare da sogni, speranze, avere un ventaglio di possibilità. Sentire che il tuo mondo era quello li, fatto di persone, di scelte, di errori, di cadute e di nuovi inizi. Sentivo di appartenere a quel mondo e lo vivevo come se fosse il miglior mondo possibile Tutto quello che ho scritto ha per me un senso e ha un senso farlo riemergere ora perché questi ricordi mi danno un senso di appartenenza, mi infondono felicità e serenità e mi fanno rimettere i piedi per terra ricordandomi che siamo persone e che come tali agiamo, sbagliamo e provando a correggerci, per migliorare, per trovare uno scopo alle cose, uno scopo alla vita. Vado oltre, so per certo che chiunque abbia letto queste righe sia tornato indietro a rivivere i suoi momenti felici. Non scrivo per pubblicità o perché mi sento superiore. Scrivo queste esperienze per ricordare a me stesso e a voi che siamo persone, che vogliono vivere felici, amate e rispettate, voglio vivere circondate da amici, vogliono inseguire e raggiungere i propri sogni, vogliono emozionarsi, vogliono sentire la vita scorrere dentro e vogliono appartenere al mondo. Mi sono stancato di sentire che non è possibile, che dobbiamo fare i sacrifici oggi per un futuro migliore. No il nostro futuro è oggi e oggi dobbiamo pretendere felicità, ognuno per quello che sente. Se siamo venuti al mondo solo per pagare debiti e fare sacrifici, allora questa vita non ha più Senso. Ritrovarsi con gli amici di sempre in una calda serata di luglio davanti ad un pizza e ricordare i momenti felici passati assieme, questo ha Senso, questo è Vita. Il resto è un trucco.

1 commento:

Diego ha detto...

Una macchina del tempo. Per qualche minuto sono tornato indietro e mi è piaciuto, ma il tempo è galantuomo e ci restituisce eventi edulcorati e mette in ombra i brutti ricordi. Sono comunque d'accordo sulla necessità di perseguire la felicità, con la disponibilità ad accettare anche qualche fuori programma, imprevisti e inevitabili. Bello Mit!